Violenza e malattia mentale |
Uno dei pregiudizi pili radicati riguardanti i malati mentali è costituito dalla loro presunta pericolosità, che li porterebbe a commettere gesti violenti, gratuiti e immotivati. Basti pensare che tutta la legislazione speciale riguardante la malattia mentale prima della riforma del 1978 ruotava intorno alla pericolosità: venivano infatti internati in manicomio i pazienti ritenuti «pericolosi per sé e per gli altri». Tale pregiudizio è talmente radicato che molti, fra cui anche alcuni giuristi, ritengono che una delle attuali disposizioni che regolano in Italia il trattamento sanitario obbligatorio, l'esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, altro non sia che una circonlocuzione per indicare di fatto situazioni che presentano il rischio che vengano commessi atti violenti contro se stessi o contro altri. A conferma di questo alone sinistro che circonda la malattia mentale sta il fatto che la quasi totalità dell'informazione che i mass media le dedicano si incentra su gesti violenti commessi da malati mentali. Non solo: vengono etichettati come «folli» tutti gli atti violenti particolarmente efferati o di cui non è immediatamente evidente la motivazione. L'informazione dei mass media è diventata una cassa di risonanza delle paure e dei pregiudizi dell'opinione pubblica generale, riducendo di fatto il dibattito sui problemi della malattia mentale e sul suo trattamento, al sospetto che il presunto aumento di atti violenti sia dovuto alla cosiddetta chiusura dei manicomi e all'esigenza o meno di leggi di difesa sociale più severe. Indubbiamente la psichiatria italiana, prendendo alla lettera le indicazioni contenute nella legge 180, non ha posto la dovuta attenzione al problema della violenza, ritenendo, troppo superficialmente, che si trattasse di un fenomeno quantitativamente poco significativo e che, in ogni caso, fossero le istituzioni deputate al mantenimento dell'ordine pubblico a doversene occupare. Solo ultimamente, sull'onda di una visione più complessa dei problemi della psichiatria, il tema si è riproposto all'attenzione degli psichiatri e si è cercato di riprendere in considerazione il fenomeno della violenza nella malattia mentale, che, anche se quantitativamente non così significativo come si suppone, costituisce sicuramente per alcune patologie una evoluzione dalle conseguenze drammatiche. Negli altri paesi europei e del Nord America, al contrario, questo fenomeno è stato studiato con molta attenzione e quella che viene chiamata «psichiatria forense» non è stata collocata in un'area secondaria e un po' esoterica della pratica psichiatrica come è avvenuto in Italia, ma è sempre rientrata a pieno titolo nella psichiatria clinica, occupandosi in primo luogo della prevenzione della violenza nella malattia mentale e del trattamento di pazienti rei o a rischio di commettere reati, e solo come corollario dei problemi giuridici e penali conseguenti. I temi di maggior rilievo emersi nel recente dibattito sono: l'epidemiologia e le caratteristiche dei fenomeni violenti nella malattia mentale; la valutazione del rischio e gli interventi preventivi; il trattamento dei pazienti rei e la prevenzione delle recidive. La domanda, posta in termini apodittici, se i malati mentali commettono atti violenti con maggior frequenza rispetto alla popolazione generale, si presta a risposte ambigue e controverse. E’ difficile avere dati sicuri sui fenomeni violenti, poiché questi cambiano a seconda dell'ambito o delle sedi che si scelgono come fonte di informazione. La stessa categoria di violenza è troppo vasta e indefinita per essere inglobata in un fenomeno unico: si va infatti da una minaccia o offesa verbale a un tentativo di aggressione, dalle percosse all'omicidio. La categoria di malattia mentale, poi, risente troppo dell'incertezza nella sua definizione, per cui si va da ricerche che partono da una prevalenza della malattia mentale che supera il 20% della popolazione generale, ad altre che fissano questo tetto a non oltre la metà. Non solo, ma anche le forme unanimemente considerate malattie mentali sono troppo diverse fra loro per essere globalmente confrontate con il fenomeno della violenza. Tutti i disturbi d'ansia, nevrotici e di depressione lieve hanno, anche intuitivamente, per le peculiarità psicologiche di questi pazienti, un tasso di violenza decisamente inferiore non solo rispetto agli schizofrenici e ai paranoici, ma anche rispetto alle persone cosiddette normali. E’’ ovvio che con queste approssimazioni metodologiche qualsiasi conclusione può essere facilmente alterata o manipolata. Più certezza e affidabilità si raggiunge quando si restringono i campi di ricerca ad alcuni quadri morbosi e si raffrontano con comportamenti violenti precisi come l'omicidio o il tentato omicidio. Dalle ricerche svolte nei paesi che con maggiore attenzione hanno monitorato questo fenomeno, segnatamente la Gran Bretagna, i paesi scandinavi e il Nord America, derivano alcuni orientamenti abbastanza condivisi: 1) i pazienti affetti da schizofrenia e altri disturbi psicotici commettono gravi delitti in proporzione maggiore e statisticamente significativa rispetto alla popolazione generale; 2) il rischio di commettere atti violenti è aumentato se alla patologia è associato l'abuso di alcol o di sostanze stupefacenti; 3) l'aumento di gravi delitti dagli anni '50 in poi sembra legato alla diffusione e all'uso di massa di sostanze stupefacenti e non, come alcuni sostengono, all'introduzione di modalità assistenziali nella comunità; 4) anche i seri disturbi di personalità incidono in percentuale superiore a quella della popolazione generale nel determinare gravi delitti. Secondo alcune ricerche il tasso di delitti commessi da pazienti affetti da disturbi schizofrenici e da altri disturbi psicotici è abbastanza simile in tutti i paesi, per cui nelle nazioni come gli Stati Uniti, dove il numero di omicidi è molto alto, quello attribuito alla patologia psichiatrica grave sarà proporzionalmente più basso rispetto ai paesi europei dove il tasso di omicidi è molto pili basso. Nei paesi europei il tasso di omicidi commessi da pazienti affetti da disturbi schizofrenici o da altri disturbi psicotici si aggira intorno al 10-12% della totalità degli omicidi, a fronte di una prevalenza di questi disturbi nella popolazione generale che va dall'1,5 al 2%. Derivare da questi dati, pur preoccupanti, la necessità di introdurre norme fortemente restrittive per tutti i pazienti affetti da questo tipo di disturbi significherebbe internare diverse decine di migliaia di persone per evitare che poche decine commettano delitti e, facendo un paragone con un altro fenomeno preoccupante, equivarrebbe ad abolire la circolazione di auto private per eliminare le potenziali vittime di incidenti della strada. Questo non significa però che, dato che si tratta di un numero in assoluto non rilevante e di un problema indubbiamente difficile da affrontare, non debba esserci una competenza specifica e una responsabilizzazione da parte della psichiatria in vista della riduzione o eliminazione di questo fenomeno, anche se tale risultato è forse impossibile da raggiungere. Un altro elemento significativo che emerge dalle ricerche è quello che lega gli atti violenti, più che a una determinata diagnosi, ad alcuni sintomi particolari presenti in un determinato quadro morboso, in particolare al delirio, sintomo principale di molti disturbi psicotici. Questo dato apre qualche spiraglio nella comprensione della dinamica dei delitti patologici, che, analizzati dall'ottica del delirante, non si presentano più come atti assurdi e immotivati, ma sembrano sempre più possedere una propria logica basata si su convinzioni errate, appunto i deliri, ma pur sempre frutto di una certa razionalità. Questa acquisizione da un lato ha fatto nascere molte discussioni sul piano medico-legale circa la responsabilità e quindi la imputabilità di questi pazienti, dall'altro sembra aprire possibilità di intervento terapeutico, orientato sempre più a intervenire su alcuni sintomi particolari piuttosto che sulla personalità globale del paziente. Un altro dato che conferma in un certo senso la razionalità dei delitti commessi dai pazienti psichiatrici gravi è che le vittime non sono degli sconosciuti scelti a caso, ma nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di familiari o di persone che hanno rapporti con l'aggressore e con cui si sono instaurati rapporti conflittuali, anche se per futili motivi, reali o immaginari. L'aumento di gravi delitti che indubbiamente si è registrato a partire dalla fine degli anni '50 sembra legato alla crescita dell'abuso di alcol e di sostanze stupefacenti, variabile estremamente significativa nella dinamica degli atti violenti; d'altro canto, essendo molti pazienti gravi dediti anche all’uso-abuso di alcol e sostanze stupefacenti, l'aumento dei delitti commessi da questa categoria di persone sembra legato più a questa abitudine che alle mutate condizioni assistenziali introdotte con la progressiva chiusura dei manicomi. Molte discussioni sono sorte negli ultimi tempi circa gli atti violenti e le dissocialità in generale commesse da persone affette da quelli che vengono definiti « disturbi di personalità», in particolare il «disturbo antisociale di personalità». Indubbiamente questa categoria di persone tende a delinquere in quantità decisamente superiore a quella della popolazione generale, anzi la dissocialità ne è il comportamento sintomatico fondamentale; non c'è tuttavia accordo se considerare queste persone come dei veri e propri malati o semplicemente delinquenti. La polemica che ha ruotato intorno alle parole «evil or ili» ha portato in Inghilterra alla proposta di effettuare ricoveri obbligatori in strutture sanitarie di natura preventiva per persone pericolose affette da gravi disturbi di personalità. Questa proposta è stata fortemente contrastata dalle associazioni psichiatriche mediche e laiche sia per il suo carattere orientato fortemente sulla sicurezza sociale - gli strumenti classici di intervento della psichiatria infatti si sono dimostrati del tutto inefficaci con questi pazienti, esaurendosi quindi nella semplice funzione di contenimento -, sia per la difficoltà a stabilire la pericolosità di un individuo su base clinica, il che porterebbe a internare molti «falsi positivi» e a lasciare liberi molti «falsi negativi». La valutazione delle pericolosità di un paziente è stata molto studiata negli ultimi tempi, soprattutto in quei paesi come gli Stati Uniti dove la pericolosità è il criterio su cui si basa la possibilità di effettuare un ricovero obbligatorio. Se in un primo tempo si credeva che una valutazione clinica attenta fosse in grado di rilevare con buona approssimazione il grado di pericolosità di un paziente, questa fiducia ha perso progressivamente credibilità, riducendo a una pura probabilità casuale l'affidabilità di una previsione di pericolosità su base clinica che andasse oltre le 24 ore successive. Si è passati quindi dalla valutazione della pericolosità tout court di un individuo, che è sempre molto aleatoria, essendo lo scoppio di gravi fatti violenti spesso legato a situazioni contingenti, alla valutazione del rischio basata su elementi oggettivi derivati dalla storia del paziente ricavata anche da familiari e persone del suo ambiente, dall'osservazione e dalla discussione diretta con il paziente come pure dai risultati di test psicodiagnostici. Gli elementi oggettivi che assumono importanza nella genesi e nella dinamica di un fatto violento sono stati selezionati attraverso un'analisi statistica effettuata su molti casi di violenza. E’ stato assegnato loro un peso diverso a seconda della loro significatività statistica; sono stati quindi raggruppati in scale di valutazione standardizzate che possono essere facilmente apprese e applicate dagli operatori psichiatrici, e per le quali si è dimostrato che l'apporto dell'informazione clinica risulta insignificante. Di questi strumenti di valutazione, di cui è stata provata ormai una più sicura affidabilità, come pure un più facile risvolto sul piano operativo di intervento, ne esistono parecchi e richiedono di essere rivisti e aggiornati ogni qual volta emergono nuove acquisizioni circa il fenomeno della violenza nella malattia mentale. Da una corretta valutazione del rischio di violenza deriva come diretta conseguenza la valutazione delle priorità rispetto al trattamento. Due sono le categorie di bisogno di trattamento dei pazienti psichiatrici a rischio di commettere gesti violenti: la prima è legata ai deficit del disturbo psichico vero e proprio, la seconda è legata a quelli che vengono definiti «fattori criminogenetici», presenti in tutti i comportamenti criminali. I fattori di rischio pili strettamente legati alla malattia sono: l'insufficienza mentale, la scarsa abilità nelle attività sociali, l'irritabilità e iperattività, ma soprattutto i sintomi deliranti e allucinatori. L'essenza patologica del delirio, come si costituisce nelle psicosi, consiste nella rigida incapacità di aprirsi alla realtà comune cogliendo, pur nella diversità dei suoi aspetti, il suo valore di riferimento intersoggettivo. In queste situazioni il paziente giunge progressivamente a costruirsi una invalicabile realtà privata, creandosi convinzioni che sono impermeabili a ogni modificazione esterna e che anzi si autoalimentano, spesso rinforzate da allucinazioni, fino a diventare in qualche caso la realtà unica e soggettiva dell'individuo. E’ facilmente comprensibile come queste situazioni diventino potenzialmente pericolose, soprattutto quando il contenuto del delirio è di persecuzione, di rovina o di danno in genere, per cui il paziente si sente imprigionato in una situazione senza scampo. E’ fondamentale in questi casi mantenere aperta e dialettica la relazione con il paziente, anche ricorrendo a trattamenti obbligatori, che alle volte possono essere prolungati e non esaurirsi in quella che sembra ormai, in Italia, una prassi comune di ricoveri che non vanno oltre gli otto o dieci giorni e che si concludono per una formale accettazione dell'intervento o per una iniziale inefficacia del trattamento stesso, lasciando il paziente in balia delle sue paure, delle sue angosce e dei suoi piani di difesa. Un'analisi approfondita di molti delitti commessi da pazienti affetti da disturbi psicotici ha dimostrato che questi avevano interrotto qualsiasi relazione terapeutica o che questa si reggeva su contatti superficiali e di routine che restavano totalmente estranei al mondo del paziente. Molto si è discusso se pazienti a rischio debbano essere inseriti in tipi di trattamento particolari rispetto ad altri pazienti gravi; le ricerche effettuate su questo aspetto specifico hanno dimostrato che programmi di intervento appositi non danno risultati migliori rispetto a un trattamento intensivo standard, a patto che sia chiaro che gli obiettivi e le finalità dell'intervento sono anche quelle di evitare lo scatenarsi della violenza intervenendo sui fattori di rischio strettamente legati alla psicopatologia. I fattori di rischio che possono avere importanza anche fra le persone non disturbate psichicamente, chiamati appunto fattori criminogenetici comuni, sono; abitudini e attitudini criminali, valori e credenze legate alla cultura della criminalità, amici e familiari legati al mondo della criminalità, socializzazione insufficiente, intelligenza verbale al di sotto della media, bisogno continuo di sensazioni nuove, scarse capacità di risoluzione dei problemi, mancanza di autocontrollo, problemi familiari legati alla droga, all'abuso di alcol e alla povertà, mancanza di cure e di affetto o abuso nell'infanzia, basso livello di scolarità e di lavoro. Indubbiamente diventa difficile intervenire su simili fattori, soprattutto da parte di una struttura medico-specialistica come la psichiatria, fermo restando la capacità arginante di un buon programma di assistenza sociale. In Italia il trattamento di pazienti che si sono resi responsabili di qualche reato oscilla fra misure eccessivamente severe, fondamentalmente di tipo carcerario, e l'assenza di qualsiasi intervento significativo: nel primo caso l'intervento è costituito dall'internamento in ospedale psichiatrico giudiziario (Opg), nel secondo caso il paziente in libertà non è sottoposto ad alcun obbligo di cura, ma semplicemente invitato a farsi seguire e curare senza alcuna procedura di verifica e di controllo. II ricovero in Opg rientra fra quelle che giuridicamente vengono definite misure di sicurezza, e consegue a un accertamento peritale condotto sul reo, che ne accerti la non imputabilità per infermità psichica, intossicazione cronica da alcol o da sostanza stupefacente, e la pericolosità sociale. La durata minima dell'internamento è stabilita dalla legge sulla base della gravità del reato commesso. Il periodo di internamento di fatto dipende dalla valutazione sulla pericolosità sociale che viene disposta periodicamente dal giudice di sorveglianza. Questo significa che se da un lato la misura di sicurezza può essere interrotta prima della scadenza stabilita dal giudice di merito che l'ha comminata, dall'altro può essere prorogata oltre tale scadenza, al limite all'infinito, se la condizione di cosiddetta pericolosità sociale non cessa. L'altra grande contraddizione degli Opg è costituita dal fatto che si tratta di vere e proprie struttura carcerarie, quasi tutte vecchie, fatiscenti e sovraffollate, dove l'obiettivo della detenzione e della custodia è di gran lunga prevalente rispetto a quello della cura e riabilitazione. Gli Opg in Italia sono 6 (Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli, Aversa, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Castiglion delle Sti-viere) e di questi solo uno ha una sezione femminile; si capisce bene come questa distribuzione territoriale non permetta un'adeguata presa in carico dei pazienti da parte dei servizi psichiatrici competenti, nonostante le numerose sollecitazioni in questo senso. Di fatto non c'è collaborazione fra queste due istituzioni, il cui rapporto rischia di trasformarsi in conflitto quando si tratta di dimettere un paziente per la difficoltà che hanno i servizi psichiatrici a trovare un'accomodazione e le risorse per il reinserimento nel territorio di origine, per non parlare della paura, dell'ostilità e del pregiudizio che l'autore di un reato grave ha creato nel contesto in cui questo è avvenuto. All'uscita della legge 180 c'era stata la preoccupazione che la progressiva chiusura degli ospedali psichiatrici generali avrebbe portato a un aumento incontrollato di internati negli Opg, fenomeno che non è avvenuto, per cui il numero è rimasto sostanzialmente invariato e si aggira intorno alle 1200 unità. Questo dato, di per sé confortante, apre tuttavia degli interrogativi sul fatto che in Italia le persone con disturbi psichici sottoposte a misure di sicurezza in Opg sono un terzo rispetto all'Inghilterra e all'Olanda. La spiegazione non può essere trovata ottimisticamente in una maggiore efficienza dei servizi psichiatrici italiani o in una migliore tenuta del tessuto sociale, ma probabilmente deve essere ravvisata nella tendenza impropria del carcere a contenere una grossa quota di patologia psichiatrica sommersa, anche grave, abbandonata a se stessa senza quel minimo di attenzione e di cure che le norme di un paese civile imporrebbero. Si potrebbe a questo punto aprire un altro capitolo sul problema della malattia mentale in carcere, che esula però dall'argomento specifico qui trattato. Meriterebbe peraltro attenzione l'affermazione di uno studioso americano che, sulla base di ricerche effettuate nei paesi anglosassoni, definì alcuni anni fa le carceri «il più grosso contenitore di patologia psichiatrica». Negli ultimi anni sono stati presentati numerosi progetti e proposte di legge per riformare tutta la materia dei malati mentali rei, ma nessuno è ancora arrivato a concretizzarsi in una legge organica. Qualche aggiustamento è stato apportato dalla Corte costituzionale che ha prodotto alcuni miglioramenti, come la non presunzione di pericolosità in caso di proscioglimento per vizio di mente (sentenza 27 luglio 1982 n. 139) e del tutto recentemente la possibilità di sostituire la misura di sicurezza in Opg con una misura alternativa (sentenza 18 luglio 2003 n. 253). A fronte di un intervento duro e restrittivo come l'Opg non esistono altri tipi di intervento più leggero che mantengano un paziente che si è reso responsabile di qualche reato in un obbligo di cura e di controllo, come strutture di ricovero di media o di bassa sicurezza o un periodo di probation in regime di libertà, così che un paziente scampato all'Opg o per la non eccessiva gravità del fatto commesso o perché riconosciuto non pericoloso al momento del processo non è sottoposto ad alcuna restrizione né ad alcun obbligo. Il che può creare in alcuni pazienti la consapevolezza di una sorta di impunità, che non fa altro che aumentare il rischio di recidiva. Un ultimo problema è quello di prevenire le recidive. È risaputo infatti che l'aver già commesso un reato favorisce la ripetizione di quel comportamento, quasi che un individuo abbia appreso questa modalità per uscire da una situazione problematica e gli si presenti come la via pili facile, tanto che è stato coniato il motto «la violenza predice se stessa». Anche se alcune ricerche effettuate in Italia sui dimessi dagli Opg hanno dimostrato la bassa frequenza del fenomeno delle recidive, si deve continuare a mantenere un controllo sui pazienti che si sono resi responsabili di gravi reati oltre il periodo della misura di sicurezza con una collaborazione fra organi giudiziari e di polizia e istituzioni psichiatriche che vada oltre la buona volontà e l'impegno personale. La violenza nella malattia mentale, anche se fenomeno non statisticamente rilevante, resta un problema importante, a volte drammatico e sconvolgente, che non può essere fatalisticamente accettato come ineliminabile, ma come tutti i sintomi e le complicazioni della malattia va studiato e affrontato nella convinzione e presunzione di poterlo un giorno eliminare, in linea con la cultura e la tradizione, anche se utopistica, della medicina di ridurre i mali dell'uomo. VITTORIO MELEGA |